Che il metoto del non-intervento, con pochi semplici accorgimenti, non sia da scartare a priori è per me un dato di fatto, ciò non toglie che si possano adottare altre precauzioni con una strategia a più ampio raggio in grado di ridurre ulteriormente le “perdite fisiologiche”; per raggiungere tale scopo si potrà (dico “si potrà” perchè fino ad ora confesso di averle applicate solo parzialmente) implementarle con alcune altre tecniche colturali.
le consociazioni e le piante “parafulmine”
Un primo metodo in grado di migliorare sia la salute che la produzione e la qualità dei raccolti è quello delle consociazioni. L’immagine sopra ne è un esempio, di tabelle simili ne esistono molte altre tutte più o meno valide. Questa tecnica si contrappone a quella tradizionale fatta di chiare suddivisioni delle coltivazioni (ortaggi dello stesso tipo tutti in fila o su un’unica aiuola) ; negli orti sinergici è un “must” e viene applicata come uno dei principi irrinunciabili.
La sua utilità è convalidata da decenni di prove e verifiche “sul campo” da parte di moltissimi orticolturi sia hobbysti che professionisti che ne hanno provato l’efficacia, classico esempio (il più “famoso“) è la consociazione tra carote e cipolle che protegge entrambe dalle rispettive “mosche“, (per la precisione sono larve che attaccano il fittone della carota e il bulbo della cipolla). Metterlo in pratica è abbastanza semplice per orti di medio-piccole dimensioni (nel sinergico si puo dire che non serve pensarci tanto, è praticamente una “conseguenza” intrinseca) dove con più specie “compatibili” in minor spazio si aumenta notevolmente anche la produzione, un po’ più difficile per quelli più estesi dove richiederà un buon “studio” preliminare che dovrà necessariamente tener conto di altri fattori come quello dell’uso o meno di mezzi meccanici, oppure, della “logistica” dei raccolti (non si potranno fare “chilometri” per raccogliere un pomodoro qui e l’altro là… risulterebbe alquanto scomodo).
La consociazione agevola anche un’altra tecnica, quella delle piante “parafulmine“ (Benjamin Franklin non centra nulla) così dette perchè in grado di attirare su di loro parassitosi che altrimenti interesserebbero porzioni più estese, un esempio sono gli acari (pidocchi) letteralmente posizionati ed allevati sulle nostre piante dalle formiche per prelevarne la sostanza zuccherina prodotta, solitamente prediligono alcune specie come le leguminose per cui mettendo una pianta qua e l’altra la abbiamo maggiori chances che si concentrino su di esse lasciando stare gli altri ortaggi. Inoltre, se gli attacchi sono concentrati su poche piante, sarà per noi più semplice intervenire per tenerli sotto controllo.
la rotazione
Oltre a malattie comuni a più specie ne esistono alcune, forse le più serie sebbene più rare, proprie di un determinato ortaggio o di una determinata famiglia; per evitare che si ripresentino periodicamente la rotazione colturale è una valida tecnica che apporta ulteriori vantaggi in termini di fertilità e produttività del suolo.
Osservando lo schema si intuisce come l’alternanza delle coltivazioni può contribuire a prevenire la reiterata insorgenza di infezioni o parassitosi specifiche di un ortaggio; molti batteri, funghi e parassiti hanno la capacità di annidarsi nel terreno per sopravvivere ai mesi freddi ripresentandosi puntualmente non appena la stagione lo permette, va da se che coltivando sempre gli stessi ortaggi nello stesso posto per più anni si finisce con l’agevolare la loro proliferazione, ruotando le colture non si ha la certezza che non vengano infettate ma, se non altro, non gli si serve il “cibo” su un piatto d’argento. Dovendo necessariamente spostarsi impiegheranno più tempo e l’attacco sarà più contenuto, le piante avranno più chances di sviluppare le contromisure adeguate e, in particolare per i parassiti, si permetterà ai predatori naturali di “attrezzarsi” (normalmente prima arrivano i parassiti e dopo i predatori, se si contengono i danni iniziali ci penseranno loro e noi potremo dedicarci ad altro).
Adottando una rotazione simile a quella dell’immagine si ha anche il vantaggio non solo di permettere la rigenerazione del terreno ma anche di arricchirlo migliorandone la fertilità (leguminose, fissatrici di azoto a livello radicale).
coltura protetta e irrigazione
La maggior parte delle malattie sono di origine funginea e si trasmettono tramite spore spinte dal vento o che “rimbalzano” dal terreno alle foglie a causa delle precipitazioni piovose o per irrigazione errate (cosi dette, appunto, “a pioggia“); in ambedue i casi la pratica di coltivare in ambiente protetto permette di limitare sensibilmente i danni, la pioggia non colpisce direttamente il terreno vicino alle piante evitando che le spore “schizzino” sulle foglie più basse (il caso “principe” è quello della peronospora che parte sempre dai primi palchi fogliari), le irrigazioni (più frequenti visto che la pioggia non cade sotto la serra) con la classica gomma possono essere sostituite da un impianto ad “ala gocciolante” (il più comodo, affidabile e non troppo costoso) o da annaffiature localizzate ai piedi della pianta (evitando di bagnare le foglie se no siamo daccapo).
Gli unici accorgimenti raccomandati (indispensabili) sono di arieggiare per bene per evitare eccessive umidità (se così fosse state certi che le spore riuscirebbero nel loro intento) e di favorire il lavoro degli insetti impollinatori (spalancategli le porte) altrimenti tutti quegli ortaggi che richiedono il loro intervento (es. zucchine e fagiolini) non sarebbero in grado di produrre frutti (le zucchine si possono anche impollinare con un “coton-fioc” ma vorrei vedervi con i fagiolini…).
pacciamatura
La pacciamatura è un’ottima soluzione quando non si ha a disposizione una serra, ammortizzando le gocce ed assorbendo l’acqua piovana limita la diffusione delle spore, certamente meno che una coltura protetta dove non piove proprio ma fa comunque un buon lavoro, inoltre è un’ottima barriera contro il proliferare delle infestanti (solo questo basterebbe già per adottarla immediatamente). I principali materiali utilizzati sono la paglia, gli sfalci d’erba essiccata (senza semi altrimenti al posto di un orto vi ritrovate con un campo di foraggio) e i teli da pacciamatura (quelli neri, bruttini ma efficaci).
Cosa scegliere? Bel problema, qui le cose si complicano anche se più che altro a livello “etico“…..
La paglia è ottima, funziona egregiamente contro le infestanti, è completamente naturale e biodegradabile (dura comunque un’intera stagione o più), trattiene benissimo l’umidità limitando le irrigazioni, protegge il terreno dal freddo o dal caldo eccessivo e, per finire, ha una resa estetica senza paragoni, lo stesso vale per gli sfalci d’erba sono solo un po’ meno gradevoli da vedere. Detta così sembrerebbe il materiale ideale, non ci sarebbe più storia ma, purtroppo, non tutte son rose e fiori…
Innanzitutto non è facilmente reperibile ovunque (consiglio di cercarla presso cascine dove allevano anche bestiame), è importante ricordarsi di integrarne lo spessore in autunno e primavera per una più efficace protezione termica ma il suo problema principale è un’altro… se abitate nel sud Italia o in zone dal clima piuttosto secco va tutto bene ma se, come me, risiedete al nord ove il clima primaverile è particolarmente umido preparatevi a combattere una guerra estenuante contro lumache e limacce, l’ambiente umido che viene a crearsi è il loro habitat ideale ove proliferano in maniera da far perdere la pazienza ad un santo; metodi (prodotti) per difendersi ne esistono molti; personalmente, visto che la “chimica” non fa parte del mio dna, ho preferito ricorrere a soluzioni “alternative, più creative”.
Se decidete che la paglia non fa al caso vostro potete ricorrere ai classici teli neri (anche verdi in alcuni casi), ne esistono di vari tipi da quelli in polietilene completamente impermeabili (personalmente non li adotterei mai perchè mi danno l’impressione di “soffocare” il terreno) a quelli in polipropilene traspiranti (questi vanno meglio, almeno un po’ d’aria e l’acqua la lasciano passare) fino al tessuto-non-tessuto, quello di colore nero piuttosto spesso (praticamente come i precedenti ma più soggetto a lacerazioni) o a quelli di ultima generazione in amido di mais biodegradabile (da nuovi sono impermeabili come i primi ma si degradano nel volgere di qualche mese e non vanno rimossi a fine ciclo, quel che ne resta può essere tranquillamente interrato).
Tutti i teli citati hanno essenzialmente alcuni problemi in comune, a fine ciclo, ad eccezione di quelli in amido di mais che andranno rimpiazzati, vanno rimossi e lavati (lavoro non molto impegnativo ma pur sempre da prevedere), una volta forati per far spazio ai trapianti il loro riutilizzo sarà vincolato dalle distanze tra i fori e dalle dimensioni del telo stesso (se li uso su una aiuola potrò riutilizzarli solo per quella o per un’altra quasi identica, in sostanza mancano di “flessibilità” e “adattabilità“), esteticamente sono piuttosto “cupi“, pur trattenendo anch’essi l’umidità non sono paragonabili all’efficacia della paglia e durante l’estate causano un surriscaldamento del terreno con conseguente rallentamento dell’attività microbiotica, dulcis in fundo (principale problema etico ad eccezione di quelli bio), dopo qualche anno, ammettendo di non averli lacerati o rovinati prima, andranno conferiti come rifiuti speciali (il loro riciclo è più difficoltoso rispetto alla comune plastica per cui non vengono considerati riciclabili dalla maggior parte dei comuni italiani).
Visti e considerati pregi e difetti dei vari materiali nasce la necessità di un compromesso che possa sfruttarne le caratteristiche positive limitandone quelle negative, in effetti studiandoci un po’ qualcosa ne è venuto fuori ma, essendo ancora in fase di collaudo, vi rimando a futuri post.